giovedì 22 ottobre 2015

CLAUDIO SANTAMARIA nel film LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT







Cinema, serie tv, festival… Vi sembra di vedere Claudio Santamaria ovunque, in questo ottobre 2015? Avete ragione: se il giovedì sera è l’imbranatissimo Orlando Mieli di “È arrivata la felicità” (la nuova serie Rai della premiata ditta Cotroneo-Rametta-Bises), al cinema si trasforma, è proprio il caso di dirlo, nel protagonista di “Lo chiamavano Jeeg Robot”. E se il titolo vi sembra orrendo, sappiate che è l’unica cosa brutta del film, per il resto davvero tutto da gustare. TvFiction l’ha visto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, per raccontarvelo.


Alzi la mano chi non ha mai guardato il Tevere con una sola domanda negli occhi: quante saranno le pantegane nascoste dietro le onde? Bene, Enzo Ceccotti è un pregiudicato in fuga da due poliziotti e a casa delle pantegane (cioè in fondo al Tevere) ci finisce al minuto 2 di “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Ne riemerge dotato di una forza sovrumana, mista a qualche litro di roba nera da sputare in giro, e si trova a dover combattere per il bene del mondo intero.

C’è il supereroe, c’è la fanciulla indifesa, c’è il nemico cattivissimo, c’è l’umanità da salvare. Siamo in un fumetto? No, a Tor Bella Monaca, ridente periferia a sud est di Roma, a cui si accede non dal binario 9 e ¾ ma salendo sull’autobus numero 20 (e a chiunque abbia studiato a Tor Vergata sarà preso – banalmente – un colpo). Ed Enzo, soprattutto, non ha nessunissima voglia di diventare un supereroe.

La sua vita è basata su un concetto fondamentale: rubare, ricettare e divorare yogurt in un terrificante appartamento dove la tv è costantemente sintonizzata sui porn… film contemporanei che mettono in scena un reciproco scambio tra uomo e donna. Per cui, quando si rende casualmente conto (prendendo a pugni una porta e facendo a pezzi il legno invece delle dita) che la sua forza è un filo cresciuta, numero uno sradica il termosifone per controllare, numero due si fionda al primo bancomat che trova e se lo porta a casa per vedere l’effetto che fa. “Eroe riluttante”, insomma, è un understatement.

Ma d’altra parte, sennò a cosa servirebbero la donna e il cattivo? La donna in questo caso è Alessia donna (irresistibile Ilenia Pastorelli), la giovane figlia psicolabile di un collega di rapine (che finisce male alla terza scena, mollandogli la ragazza da gestire). Carina, niente da dire. Ma fuori come un balcone: vive attaccata al suo lettore dvd, parla solo di manga giapponesi, si convince immediatamente che Enzo sia Hiroshi Shiba, e che il suo compito sia distoglierlo dalle pur pregevoli intenzioni criminali (dopo il bancomat Enzo passa ai furgoni blindati) e indirizzarlo verso compiti più alti.

Tipo riempire di sberle prima l’ego e poi la faccia da schiaffi del supercattivo di turno, uno che massacra i rivali a colpi di iPhone (lo usa proprio come arma per accopparne uno), vive circondato da doberman (da liberare al momento giusto), e in ultima analisi vuole diventare il re del crimine per fare cinque milioni di visualizzazioni su Youtube.

Menzione speciale – a questo punto obbligatoria – per l’incredibile Luca Marinelli che appena smessi i panni di Cesare in “Non essere cattivo” (il film di Caligari, Serafini e Meacci candidato italiano all’Oscar) diventa per l’appunto il cattivissimo Zingaro… salta, balla, canta, seduce, uccide, ride, muore, risorge, al punto che non ti chiedi più cosa non sappia fare, ma cosa riusciranno a fargli fare la prossima volta. Già pronta per l’antologia con la scena in cui la dichiarazione di poetica criminale “Voglio lascia’ un segno” si conclude con lui che canta a squarciagola – intonatissimo – “Non sono una signora” di Loredana Bertè.

Perché è questa la vera magia di “Lo chiamavano Jeeg Robot”: riprendere i canoni del genere supereroistico alla lettera, rivisitandoli con animo borgataro e rendendoli riconoscibili in un istante a chiunque sappia cos’è una periferia ma anche solo un frigorifero vuoto. Per non parlare del tram 19 che non passa mai (perché c’è un gigante che lo sta tenendo fermo con la sola forza delle braccia), di “lei”, Alessia, che nasconde il corpo di una donna (troppe volte violato) nelle parole di una bambina che vuole il vestito da principessa per la festa, della napoletana più nera di Imma Savastano che scambia colpi di proiettile con la trans cravattara (= strozzina, a Roma) in un parcheggio sperduto che fa un po’ Far West e un po’ Ikea.

Ma “Lo chiamavano Jeeg Robot” non è solo borgata: la rincorsa iniziale è sotto Castel Sant’Angelo, le “trasformazioni” avvengono con San Pietro sullo sfondo. E la spettacolarità, in maniera intelligente, non è negata mai, quando serve. Purché resti venata di risate.

Geniali i dialoghi di “lei”, che è l’anti-lei per eccellenza e però ha esattamente quella funzionalità, nell’universo rigenerato, che deve avere una “lei” come si deve: risvegliare l’eroe dal torpore riluttante e consegnarlo al bene. Funzione esaurita la quale può sparire – così gli antagonisti si possono odiare senza remore – lasciando spazio alla vera lotta.

Perché sono le leggi del genere a comandare, e allora ecco che il supercattivo per qualificarsi tale deve prima eliminare, nel modo più truculento possibile, tutti gli altri pretendenti al titolo (brutti, folli e cattivi, ma non abbastanza), poi vivere sulla propria pelle la “trasformazione” in super-robot (sì, passa anche lui dalle pantegane in fondo al Tevere), e infine confrontarsi ad armi pari con l’eroe. Che a quel punto ha perso tutto quel che poteva perdere (preparare i fazzoletti, perché si piange anche, un poco, tra le risate), capito tutto quel che doveva capire (i furgoni blindati si lasciano stare, le bambine piangenti dentro le auto infuocate si salvano), ed è pronto per sacrificare tutto ciò che gli resta (la vita) per il bene supremo.

Cioè la salvezza del derby Roma-Lazio, che si sta giocando all’Olimpico, ora, in un presente funestato da attentati camorristici travestiti da rivoluzione sociale (perché un tocchettino di politica per contestualizzare malissimo non fa, o almeno regista e sceneggiatori non vi hanno voluto rinunciare).

Claudio Santamaria parte col broncio monolite che sfocia nel rintronato, per tutto il film mangia solo yogurt (… la dieta dei campioni, ma ché, Danone è sponsor?) e alla fine lascia che nasca una crepa in quel broncio. La crepa da cui – come dice Leonard Cohen - passa la luce.

Raccontare il dove e il come e di quante mazzate consti il grande scontro finale tra bene e male significherebbe togliere una bellissima sorpresa allo spettatore, quindi ci limitiamo a dirvi due cose: andate a vedere “Lo chiamavano Jeeg Robot” (ma non di giovedì sera, se vi piace Santamaria e volete scoprire che combina ballando il tango con Claudia Pandolfi su RaiUno), e attenzione alla scena finale.

L’ultima botta, il colpo da maestro tra ironia, tenerezza, melò, e il più puro omaggio ai cartoni animati (e a quello che hanno significato per una generazione intera) che si potesse creare.

Bonus 1: Se vi sembra di riconoscere il regista, Gabriele Mainetti, è perché l’avete visto in un sacco di fiction. Da “Stiamo bene insieme” a “La omicidi” a “La nuova squadra”.

Bonus 2: Abbiamo visto anche “Le rois du monde”. Ci sono film che ti fanno venire in mente una parola sola: “PERCHE'?”

(A cura di Olympias)

“Lo chiamavano Jeeg Robot”

Regia: Gabriele Mainetti 

Cast: Claudio Santamaria (Orlando), Luca Marinelli (Zingaro), Ilenia Pastorelli (Alessia) 

Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti